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  Boa . Lavorazione del divano

gennaio 2022

FOCUS
Words
Pierluigi Masini

L’eterno Contemporaneo

Ho sempre pensato alle proposte di arredamento di Edra come a qualcosa di estremamente innovativo ma allo stesso tempo classico. Ora che mi trovo a scriverne, mi chiedo: ma davvero si può essere innovativi e classici insieme? Sembrano due elementi in contraddizione. L'innovazione va in una direzione: è rapida, intuitiva, anche violenta nei tempi, dirompente. La classicità poggia su altre basi, ha bisogno di recuperare sedimenti di memoria antica, di mettere insieme forme e suggestioni metabolizzate che fanno parte di noi, della nostra cultura. Sono parte del nostro paesaggio interiore, fatto di forme e dimensioni che ci portiamo inconsapevolmente dentro. E il classico è per definizione senza tempo: questo è un altro elemento che Edra introduce nella sua visione dell'architettura d'interni. Propone che i suoi prodotti siano tramandati di generazione in generazione: tutto il contrario di ciò che ha sempre sostenuto il design, con i riti delle novità del Salone, delle collezioni che seguono di pari passo la moda e via dicendo. Ci torno più avanti.

Riparto invece dalla mia personale sensazione di fronte ad alcuni divani e poltrone che a distanza di anni, molti anni, decenni addirittura, continuano a suscitare in me emozioni e considerazioni. Penso che questo Magazine, una nuova avventura che fa di Edra anche un coraggioso editore di carta stampata, sia la giusta palestra dove esercitare e condividere certi ragionamenti.

Voglio portare un primo esempio che penso possa servire a spiegarmi meglio. Partiamo dal Tatlin, un divano nato dalla penna di Mario Cananzi e Roberto Semprini oltre trent’ anni fa, nel 1988 per l'esattezza. Vladimir Tatlin era il padre del Costruttivismo russo, amava Picasso e i Futuristi, che aveva frequentato a Parigi, e poco più di un secolo fa aveva progettato il Monumento alla Terza Internazionale, che doveva essere alto quattrocento metri e far ombra al Palazzo d'Inverno, residenza degli zar a Pietroburgo. 

 

Ma davvero si può essere innovativi e classici insieme? Sembrano due elementi in contraddizione.

 

Naturalmente non se ne fece nulla. Rimase solo un gigantesco plastico, un esempio di architettura irraggiungibile fino a quando, agli inizi della sua storia, Edra decide di mettere in produzione quel divano che diventa subito un'icona: è tondo, va collocato a centro stanza, il suo pinnacolo di morbido velluto raggiunge forse il metro e mezzo d'altezza ma sembra di sedersi su un'architettura, sembra di essere al centro dell'attenzione, di dominare l'ambiente. E' qualcosa che ha a che fare con il progetto e la scultura, una morbida scultura. E' un piacere sottile quello che il Tatlin a distanza di tanti anni continua a regalare. Come si riesce a raggiungere ciò?

Porto un altro esempio, il Boa di Fernando e Humberto Campana. Come vogliamo chiamarlo? Non saprei usare un termine: è vero che ci si siede sopra ma non si era mai visto un divano fatto di tubolari lunghi centoventi metri, intrecciati per giorni. Una struttura vellutata in cui accomodarsi in modo sempre diverso. In me evoca il fascino dei nodi: quelli che intorno all'anno Mille i Bizantini scolpivano nel marmo e che gli amanuensi irlandesi vergavano sui loro codici. I nodi che Leonardo lascia nel soffitto della Sala delle Asse nel Castello Sforzesco di Milano. Il nodo che compare alla cintura del Vir Niger di Schifanoia a Ferrara, opera di Francesco del Cossa, enigmatico personaggio studiato da Aby Warburg. 

 

Veramente moderno è ciò che è degno di diventare antico… moderno è lo spirito dei tempi, ma la forma vera non può che essere classica -
Dino Gavina

 

Certo, anche i nodi di un popolo, come quello brasiliano, che sa usare l'artigianalità al massimo livello partendo da niente. C'è un mondo di riferimenti in un nodo. E quel nodo nessuno prima lo aveva fatto diventare divano: nodo d'amore, di complice alleanza, nodo che intreccia racconti e storie, seduzioni, ricordi. 

“Veramente moderno è ciò che è degno di diventare antico… moderno è lo spirito dei tempi, ma la forma vera non può che essere classica”. Ho pensato spesso a questa frase di Dino Gavina: lui amava ripeterla e ricordo che l'ha pronunciata anche quando l'ho incontrato l'ultima volta nella sua casa museo di Bologna. E' una frase bellissima, generatrice di pensieri, a suo modo profetica: il moderno e l'antico, la classicità delle forme, il senso della contemporaneità e del suo divenire, l'eredità di quello che siamo e che dobbiamo consegnare a chi verrà dopo di noi. 

Edra scommette sulla modernità, e quindi ipoteca il suo ruolo di essere, un domani, antico. Ma non solo.

La contemporaneità è la dimensione in cui si muove da sempre il mercato dell'arredamento: non è nato su queste premesse il design italiano? Non è cresciuto in opposizione ai modelli del passato? Non doveva farsi spazio per affermarsi rispetto a ciò che già esisteva da secoli? Non era arte, non era (solo) artigianato e ha trovato forza sulla spinta di futuristi come Balla e Depero, l'ardore rivoluzionario che si contrappone al ‘passatismo’ delle camere in stile che ripetono in chiave riveduta e corretta riccioli rococò e zampe di leone. Tre cose hanno caratterizzato la spinta al rinnovamento degli arredi. In primo luogo la logica dell'industrial design, ovvero la produzione in serie attraverso processi e macchinari nuovi, oltre che materiali inediti. Poi il bisogno di affermare oggetti che esprimessero la contemporaneità, terreno insidioso, difficile da leggere, sfuggente perché è qualcosa che succede insieme a noi. Terzo elemento, connesso a questo, il loro essere intrinsecamente effimeri, destinati a essere soppiantati in breve tempo, oggetti di moda da presentare in fiera per raccogliere ordinativi e abbandonare l'anno dopo. A maggior ragione era una scommessa pensare che un giorno quei pezzi avrebbero decuplicato il loro valore invece che finire in discarica. Edra scommette sulla modernità, e quindi ipoteca il suo ruolo di essere, un domani, antico. Ma non solo.  

Il design italiano è da sempre sogno più che bisogno. E' l'insieme di mille sperimentazioni diverse una di seguito all'altra. Non ha mai avuto l'incrollabile certezza nell'industria che avevano i tedeschi né la fede mirabolante nel socialismo del design dei paesi nordici. Seguiva la moda, con i suoi riti e le sue collezioni, e intanto legittimava centimetro dopo centimetro il presente. Doveva accontentare un pubblico volubile e incarnare un prodigioso status symbol calato nel tempio della più intima quotidianità: la casa.

Veramente moderni negli anni ‘60 e ‘70 erano mobili fatti di termoplastica e vetroresina, con forme spaziali che introducevano un futuro da ‘Base lunare Alpha’. Ma il concetto di durare nel tempo, diciamo la verità, non esisteva. Non lo volevano gli imprenditori, che rincorrevano le novità a tutti i costi, né i designer, che gli andavano giustamente a ruota. Nessuno voleva che il ciclo di vita di questi prodotti fosse lungo, al contrario: il pubblico aveva sogni di una notte o poco più che diventavano bisogni impellenti e poi giù altri sogni. E tutti a produrre. Pensiamo a cosa sono stati gli anni degli Yuppies, dell'edonismo reaganiano in cui l'Italia del fare considerava un grave errore di progettazione una performance di prodotto superiore al tempo minimo richiesto (in rapporto al prezzo pagato). Per questo oggi, nonostante siano stati realizzati in serie, tanti oggetti di design arrivati fino a noi hanno quotazioni molto alte nelle gallerie specializzate: ne sono rimasti pochi, sono i superstiti di una generazione frulla-tutto, la risacca della grande bisboccia che arriva a noi con la patina del tempo.

Quindi il concetto che un bel mobile o una poltrona dovessero durare allora non c'era. Eppure è qualcosa che sposta l'asse della soddisfazione d'acquisto. In termini manichei, il valore è ‘bene’ e il piacere ‘male’. Ma in termini di marketing, invece, valore e piacere da sempre sono la formula aurea del successo. Il mondo del lusso, dalla moda all'automotive, raramente sposa il valore della durabilità, la tendenza di un oggetto a resistere nel tempo. E quando lo fa, la ammanta giustamente di heritage, del patrimonio storico di esperienza proprio del brand: se ci pensiamo, l'orologio svizzero da tramandare di padre in figlio garantisce all'acquirente un inaspettato aldilà terreno e costruisce una narrazione dedicata, che in termini aspirazionali aumentano fortemente il valore percepito.

Il concetto di Edra di costruire prodotti destinati a durare nel tempo è qualcosa di nuovo nella storia dell'architettura d'interni. Lo trovo unico e distintivo, una promessa solida e importante. Chi si pone obiettivi così ambiziosi, puntando a un benefit come la tramandabilità, genera un effetto timeless che si porta dietro anche altre piacevoli conseguenze. In primo luogo, il messaggio che arriva è che così facendo si supera la soglia dell'oggi, terreno di caccia preferito dalle aziende di design e del marketing più scontato: nella proiezione sul domani, ieri e oggi convivono superando il tempo. E possono farlo solo se il valore del prodotto in sé, il suo ciclo di vita, è davvero fuori dal comune. Quindi diventa coerente la ricerca sui materiali, in termini di benessere destinato a durare nel tempo, che è un'altra caratteristica su cui Edra ha costruito la sua proposta. Inoltre i nuovi pubblici sempre più apprezzano le cose fatte per durare, che trascorrono il tempo con noi e fanno parte della nostra vita, non solo della nostra casa. Il contrario di quello che veniva richiesto dal mercato negli anni 70.

Seconda conseguenza è che si sta mettendo da parte la logica delle ‘ultime novità’, delle tendenze e della moda, per aprire la porta alla classicità. A qualcosa che identifica l'azienda, che si rinnova con passi lenti, che ha forza e solidità. Il concetto di classico: noi italiani non possiamo prescindere dal concetto di classico perché ne siamo immersi, circondati al punto stesso di non accorgercene. Viviamo la tradizione, la raffinatezza e l'eleganza delle nostre città, dei nostri borghi e del nostro paesaggio, e insieme amiamo l'innovazione, da sempre. E' un'altra cosa che ci contraddistingue. Spirito moderno e forma classica. Il classico, e di conseguenza l'anticlassico, è come un fiume sotterraneo e ogni tanto sale in superficie. 

Pensiamo a cosa fa Milton Glaser, il graphic designer di I love NY (scritto con il cuore rosso), quando nel 1969 gli viene commissionato da Olivetti il poster della Valentine, la macchina da scrivere rossa di Ettore Sottsass. Va a recuperare dalla National Gallery di Londra un dipinto di Piero di Cosimo del 1495, La morte di Procri, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, e accanto al particolare del cane che veglia il padrone inserisce lei, la Valentine. Il massimo della classicità e il massimo dell'innovazione: nel passato classico irrompe la modernità. 

E potremmo ancora parlare del celebre specchio Milo di Carlo Mollino, che lascia che ci si specchi nella silhouette della celebre Venere. L'eredità del Classico e anche la sua apparente dissacrazione.

Classico non significa per forza imitazione di forme e stilemi. Dobbiamo pensare di aspettare decenni prima di decretare classico un progetto di arredo di oggi? 

L'eleganza delle proporzioni, insieme alla raffinatezza dei materiali, sono un tema di classicità che non ha bisogno di attendere decenni per avere la sua compiuta riconoscibilità. E il marketing indistinto degli anni ‘80, che decretava il successo degli happy few, oggi ha altri driver: l'obsolescenza non ha valore, la tradizione e la classe sì. 

Il classico, nel mondo dell'arredo contemporaneo, è un progetto che conquista una sua aura in tempi brevi. Trovo centrate le considerazioni di Domitilla Dardi e Vanni Pasca nel loro recente Manuale di Storia del Design, laddove inseriscono i pezzi dei fratelli Campana nell'ambito dei prodotti anti-classici: giusto, nascono così, hanno altri riferimenti sia il Boa che la Favela o la Corallo. Il Brasile mette insieme l'eredità di Lina Bo Bardi e quella degli artigiani della povertà, lontanissimi dall'invenzione della prospettiva di Piero della Francesca. Ma se ci pensiamo la forte spinta innovatrice trasforma presto i pezzi dei Campanas in classici dell'arredo, icone addirittura. E il classico, per definizione, sfida il tempo.


Pierluigi Masini

Giornalista professionista, laureato in Lettere con indirizzo Storia dell’Arte, due master in Marketing e Comunicazione. Insegna Storia del Design alla Raffles Milano e Interior
Design and Sustainability alla Yacademy. Ha scritto un libro su Gabriella Crespi.

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